"Che vuol ch'io faccia del suo latinorum?"
"Che vuol ch'io faccia del suo latinorum?"

IL “CATULLO PROIBITO”

Ciò che del famoso poeta non si ha il coraggio di dire a scuola (di Melissa Avataneo, 3BST a.s. 2022/2023)

Qual è la prima cosa che vi viene in mente quando sentite parlare di Catullo? Quasi sicuramente interminabili ore di lezione e una valanga di versi da tradurre. Catullo è conosciuto come il poeta dell’amore, il primo vero “sottone” della letteratura, che sarà poi seguito da altri famosissimi autori come Dante, Petrarca, Leopardi, e chi più ne ha più ne metta. Gran parte del suo Liber è infatti dedicata alla sua amatissima Lesbia (nome ispirato dalla poetessa greca Saffo), che è solo il soprannome che egli attribuisce a Clodia, una donna sposata e più vecchia di lui, ma che a quanto pare al tempo faceva girare la testa a tanti Romani. Non sembra poi così interessante, vero? 

Ma se vi dicessi che c’è di più, che questo misterioso poeta non scriveva soltanto dolci rime d’amore? 

C’è infatti una sezione del suo manoscritto che  i critici letterari e gli insegnanti hanno sempre cercato di occultare.  Essa è chiamata “Catullo proibito”, composta da alcune nugae in cui l’autore ha deciso di togliersi qualche sassolino dalla scarpa, attraverso allusioni sessuali piuttosto esplicite e un linguaggio scurrile ma sapientemente architettato, verso alcuni dei suoi concittadini. Li riporteremo di seguito, cercando di dare una traduzione il meno irriverente possibile, seppure necessaria.

Gli insulti agli “amici”:

  • Ad Aurelio e Furio: nel carme 16, ad esempio, il nostro autore inveisce su due rivali che lo avrebbero preso in giro per i “mille baci” richiesti all’amata in una delle sue più celebri poesie. Catullo qui riesce proprio a rigirare la frittata, dicendo che tra i lettori di queste smancerie che tanto giudicano ci sono anche loro!

Pedicabo ego vos et irrumabo,

Aureli pathice et cinaede Furi,

qui me ex versiculis meis putastis,

quod sunt molliculi, parum pudicum.

nam castum esse decet pium poetam

ipsum, versiculos nihil necesse est;

qui tum denique habent salem ac leporem,

si sunt molliculi ac parum pudici,

et quod pruriat incitare possunt,

non dico pueris, sed his pilosis

qui duros nequeunt movere lumbos.

vos, quod milia multa basiorum

legistis, male me marem putatis?

Pedicabo ego vos et irrumabo.

TRADUZIONE

Io vi sodomizzerò (…) ,

Aurelio, l’invertito, e Furio il sodomita,

che dai miei versetti desumete,

solo perché sono delicato e premuroso,

che io sia poco onesto e casto.

Infatti casto con sé stesso deve essere l’onesto poeta,

ma niente è imposto ai suoi versi;

Versi che poi hanno gusto e fascino,

se sono delicati e poco casti,

e possono stimolare i pruriti,

non dico ai ragazzini ma a questi vecchi pelosi,

che non possono muovere gli arti.

Voi, che dei miei mille baci avete letto,

mi reputate una femminuccia?

Io vi sodomizzerò (…)

(N.d.a.: si è cercato di rendere meno esplicita e irriverente possibile la traduzione; laddove poteva esserlo troppo, la si è omessa si è preferito lasciare al lettore la curiosità di ricercare sul dizionario il significato dei verbi impiegati dall’autore)

“Quelle labbra rosse…”:

Nel carme 80, invece, Catullo prende di mira il povero Gellio, conosciuto per le sue tendenze omosessuali. E oltretutto lo fa con una certa eleganza e naturalezza, chiedendo all’amico come possano le sue “labbrucce rosee” diventare stranamente candide come la neve quando esce di casa la mattina. Le allusioni sono chiare su come Gellio passi le sue notti…

Quid dicam, Gelli, quare rosea ista labella

hiberna fiant candidiora nive,

mane domo cum exis et cum te octava quiete

e molli longo suscitat hora die?

nescio quid certe est: an vere fama susurrat

grandia te medii tenta vorare viri?

sic certe est: clamant Victoris rupta miselli

ilia, et emulso labra notata sero.

TRADUZIONE

Come puoi, Gellio, spiegare perché queste tue labbrucce rosee

divengono più candide della neve d’inverno,

quando alla mattina esci di casa o quando nel primo pomeriggio

delle lunghe giornate estive ti ridesti dal pigro riposo?

Per certo non saprei come avvenga: ma potrebbe esser vero, qualcuno lo sussurra,

che sei un divoratore di quell’enorme arnese ch’esce dall’inguine di un uomo?

è così, di sicuro: lo gridano la schiena rotta di Vittorio,

pover’uomo, e le tue labbra segnate dal latte che hai succhiato.

Le POCO dolci parole a Lesbia:

Avete letto bene: alle frecciatine di Catullo non sfugge nemmeno la sua amatissima matrona! Come si sa, infatti, la loro storia non era stata proprio tutta rose e fiori, soprattutto da quando Clodia, da donna indipendente ed emancipata quale era, lo aveva tradito dopo una cascata di promesse mai mantenute, e il povero poeta ne era rimasto addolorato. Dopo un lungo conflitto interiore, tra tutti i suoi “odi et amo”, Catullo infine si rende conto della persona spregevole di cui si era perdutamente invaghito, e decide di vendicarsi chiedendole di “restituire i versetti” che le aveva dedicato. Nel carme 42, infatti, il poeta sfrutta l’occasione per sfoggiare la sua ars poetica, dicendone di tutti i colori alla ragazza a cui aveva dato tutto il suo cuore:

Adeste, hendecasyllabi, quot estis

omnes undique, quotquot estis omnes.

Iocum me putat esse moecha turpis

et negat mihi nostra reddituram

pugillaria, si pati potestis.

Persequamur eam, et reflagitemus.

Quae sit, quaeritis: illa, quam videtis

turpe incedere, mimice ac moleste

ridentem catuli ore Gallicani.

Circumsistite eam, et reflagitate:

‘Moecha putida, redde codicillos,

redde, putida moecha, codicillos”.

Non assis facis? O lutum, lupanar,

aut si perditius potest quid esse.

Sed non est tamen hoc satis putandum.

Quod si non aliud potest, ruborem

ferreo canis exprimamus ore.

Conclamate iterum altiore voce:

“Moecha putida. redde codicillos,

redde, putida moecha, codicillos”.

Sed nil proficimus, nihil movetur.

Mutanda est ratio modusque nobis,

si quid proficere amplius potestis:

“Pudica et proba, redde codicillos”.

TRADUZIONE

ACCORRETE, ENDECASSILABI, QUANTI VOI SIETE

DA OGNI LUOGO TUTTI, TUTTI QUANTI, OVUNQUE VOI SIETE.

UNA DISGUSTOSA PU***** PENSA CH’IO SIA IL SUO ZIMBELLO

E SI RIFIUTA DI RIDARMI I NOSTRI VERSETTI,

SE SOLO VOI POTESTE TOLLERARLO.

INSEGUIAMOLA, E NON DIAMOLE TREGUA.

CHI MAI SIA, VOI CHIEDETE: QUELLA, CHE VEDETE

INCEDERE TURPE, SEMBRA UN PAGLIACCIO E CON QUELLA BOCCACCIA

DALLA RISATA MOLESTA PAR ESSERE UN CUCCIOLO DI CANE DI GALLIA.

CIRCONDATELA, E NON DATELE TREGUA:

‘FETIDA D’UNA PU*****, RESTITUISCI I VERSETTI,

RESTITUISCILI TUTTI, PU***** PUTREFATTA’.

TE NE FREGHI? OH CHE ZOZZA, CHE GRAN T****,

LA PIÙ DEGENERATA CHE POSSA ESISTERE.

MA CREDO CHE QUESTO NON SIA ANCORA SUFFICIENTE.

SE NON ALTRO CHE NOI LA SI POSSA FAR BRUCIARE DI VERGOGNA,

QUELLA CAGNA DURA COME IL FERRO.

STRILLATE ANCORA, URLATE PIÙ FORTE:

‘FETIDA D’UNA PU*****, RESTITUISCI I VERSETTI,

RESTITUISCILI TUTTI, PU***** PUTREFATTA’.

MA NIENTE, NON SI OTTIENE NIENTE, NULLA LA SMUOVE.

È RAGIONEVOLE PER NOI CAMBIAR METODO E MANIERA,

SE VOGLIAMO SPERARE DI OTTENER QUALCOSA:

‘O FONTE D’IMMACOLATA BONTÀ CASTA E PURA, RIDAMMI I VERSETTI

Catullo ci ha così mostrato come non tutti i “big” della letteratura siano in grado di scrivere solo opere auliche e di provare sentimenti elevati, ma che al contrario anche loro potevano svegliarsi con la luna storta ogni tanto, e mostrare quelle aspre sfaccettature dell’animo umano che non siamo soliti attribuire a chi scrive poesie. Ovviamente chi scrive si dissocia da tali intemperanze.